I pericoli silenziosi delle barche abbandonate

Ogni giorno nel mondo le autorità marittime registrano centinaia di imbarcazioni da diporto abbandonate per i più svariati motivi: incidenti, avarie, ma anche per traffici illeciti e per evitare i costi di smaltimento. Il rischio, oltre alla sicurezza della navigazione, è l’inquinamento ambientale.

Gli oggetti abbandonati incutono un certo fascino e mille suggestioni. Rimandano a storie lontane, proprietari misteriosi, emanano un senso di malinconia e accendono inevitabilmente una grande curiosità. Anche da parte di chi vuole osservarli da vicino, segnalarli e addirittura appropriarsene. Vale per le case, le automobili, ma anche per le barche. Basta farsi un giro su You Tube per vedere centinaia di video di motoscafi e barche a vela abbandonati nel mondo, lungo costa, sui laghi, nei fiumi. Spesso si tratta di relitti solitari, ma a volte sono dei veri e propri cimiteri di scafi.

I motivi di questi abbandoni sono molteplici: il fine vita naturale di questi mezzi che dopo tanti anni di navigazioni hanno fatto il proprio corso oppure l’improvvisa difficoltà finanziaria dei loro armatori che non sono più in grado di sostenerne le spese di manutenzione e di ormeggio. Molto spesso si tratta di barche da diporto vittime di incidenti, affondamenti, incagli negli scogli o avarie oppure scafi che non hanno resistito all’inclemenza del meteo e sono stati flagellati da uragani e tempeste tropicali in mare come a terra, mentre erano rimessate in un cantiere.

La responsabilità dell’armatore dietro un relitto

In realtà anche se tali incidenti accadono in luoghi remoti, magari durante lunghi passaggi oceanici o navigazioni in capo al mondo c’è sempre una responsabilità dell’armatore verso queste barche che dovrebbe occuparsi di smaltirle correttamente anziché abbandonarle al proprio destino. Il relitto di una barca infatti quando parzialmente o totalmente sommerso, rappresenta sempre un grave rischio per la navigazione che mette in pericolo altri diportisti. C’è poi un discorso ambientale: un relitto è sempre una massa di materiale inquinante, dalla vetroresina con cui è costruito lo scafo, al carburante e agli altri olii e liquidi reflui che rimangono nei serbatoi e negli impianti che possono sversarsi e contaminare l’acqua o il terreno attorno.

Anche i gas, la vernice in decomposizione e le batterie sono tossiche: rilasciano cromo, rame, piombo, mercurio e zinco nell’acqua, contaminando i sedimenti del fondo marino. Gli organismi che vivono lì ingeriscono questi metalli pesanti e le loro tossine vengono quindi trasferite lungo la catena alimentare. Una barca affondata può anche irritare il fondale marino, sconvolgere praterie di poseidonia e scogliere, colpire pesci e altri organismi.

Smaltimento, processo lungo e costoso

Insomma il relitto di una imbarcazione da diporto sia anche un natante può essere una vera e propria bombe ecologiche. La scelta più logica e responsabile nei confronti dell’ambiente è quella della rottamazione. La via legale del corretto smaltimento di una barca però è ancora un processo piuttosto impegnativo in molti paesi che inizia contattando la Guardia Costiera per richiedere tutte le pratiche burocratiche necessarie e soprattutto l’autorizzazione alla demolizione della barca e la conseguente domanda di cancellazione dal registro di immatricolazione. Nella richiesta di autorizzazione si può aggiungere anche lo sbarco e la demolizione del motore entrobordo e di tutte le sue parti meccaniche, così come si può indicare l’eventuale azienda che si occuperà dello smaltimento, la quale può eseguire un sopralluogo per verificare lo stato della barca, controllarne i documenti e stilare la perizia di stima insieme a un dettagliato preventivo.

La durata dei lavori di rottamazione è piuttosto breve: per un cabinato di 12 metri è di 2-3 giorni, ma il tempo può allungarsi se l’armatore vuole recuperare dei pezzi dalla barca, come per esempio albero, allestimenti interni, legni, eliche, attrezzature, etc. Quanto costa l’intera operazione? Il costo dell’operazione per arriva a 5.000 euro. Una cifra che non tutti possono permettersi e allora per gli armatori senza scrupoli non resta che abbandonare la propria barca alla deriva o in qualche angolo sperduto, ma anche in porti e marina.

Anche in Italia esistono i cimiteri di barche

Le capitanerie di porto di tutto il mondo sono ciclicamente impegnate per verificare la corretta applicazione delle normative nazionali ed internazionali per la prevenzione dell’inquinamento e il corretto smaltimento di unità da diporto e natanti. Ma il problema è che le forze in campo per i controlli sono esigue rispetto al numero delle barche in circolazione su mari, laghi e fiumi. Relitti che rimangono per anni in questi luoghi contribuendo in modo significativo all’inquinamento di acque e territorio.

Quello delle barche da diporto abbandonate è un problema che tocca da vicino anche l’Italia dove ogni anno Guardia Costiera e forze dell’ordine registrano il ritrovamento di decine di centinaia di relitti. Tali dati sono comunque quasi sempre parziali perché il loro numero reale è sicuramente superiore. Basti pensare all’enorme bacino delle barche al di sotto dei dieci metri di lunghezza che non vengono immatricolate. Secondo gli ultimi dati di Ucina, la confindustria nautica, in Italia circolano poco meno di 600.000 barche. Di queste, solo 100.000 risultano iscritte nei registri degli Uffici marittimi e della motorizzazione civile, mentre la stragrande maggioranza non sono immatricolate. Un altro fattore importante è la vita media delle unità da diporto: 10 anni per canoe, kayak, natanti a remi e per uso sportivo, contro i 20 anni delle barche in vetroresina. Ebbene, dei 600.000 scafi che solcano i mari italiani almeno un terzo avrebbero superato i 15 anni di età. Pertanto è lecito aspettarsi che a partire dai prossimi anni dovranno essere smaltite.

Tanti relitti sono di natanti non registrati

Fece un certo scalpore qualche anno fa il censimento lungo le sponde del Tevere, nel Lazio, di un vero e proprio cimitero di barche abbandonate che andava dal centro della Capitale fino alla zona canale di Fiumicino, a poche centinaia di metri in linea d’aria dalla riserva naturale del Wwf Litorale Romano. Anche per la Guardia costiera e le autorità è molto difficile rivalersi sui proprietari di questi rottami che nel 99 per cento dei casi non risultano iscritte in alcun registro e sono prive di contrassegno.

Ad aumentare il problema sono le cosiddette “carrette del mare” cariche di migranti che vengono abbandonate dagli scafisti lungo le nostre coste. Spesso si tratta di imbarcazioni fatiscenti già in partenza che quando toccano l’Italia si collocano a metà strada tra il relitto e la nave abbandonata, il più delle volte messe sotto sequestro dalla magistratura e parcheggiate a tempo indeterminato in attesa di incastrare i trafficanti di esseri umani.

Carrette del mare e barconi di clandestini

E poi ancora c’è la spinosa questione dell’abbandono deliberato delle navi cosiddette maggiori, quelle commerciali di grandi dimensioni per la navigazione d’altura. Una ventina all’anno rimangono di fatto ormeggiate come bene di nessuno nei porti italiani. Dietro c’è una scelta precisa degli stessi armatori, nella maggior parte dei casi stranieri e provenienti da Paesi ai margini delle convenzioni internazionali. Per un cinico calcolo di costi-benefici, armatori con problemi tecnici o economici (legati al carico che trasportano, certificazioni, assicurazioni, pagamento degli stipendi e debiti pendenti) decidono di mollare la barca con tutto l’equipaggio, che rimane come sequestrato a bordo per non perdere il diritto al risarcimento.

Facce diverse dello stesso problema che richiede contromosse tempestive e strategicamente studiate da parte non solo dell’Italia, ma di tutti i paesi del mondo. È una questione di civiltà rispetto delle norme e soprattutto dell’ambiente.

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David Ingiosi

Appassionato di vela e sport acquatici, esperto di diporto nautico, ha una lunga esperienza come redattore e reporter per testate nazionali e internazionali dove si è occupato di tutte le classi veliche, dalle piccole derive ai trimarani oceanici

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