Gli sport giovanili stanno vivendo una sorta di illuminazione. Si comincia cioè a realizzare che incentrare le discipline sportive sulle gare e l’agonismo non è la strada giusta per creare una connessione a lungo termine con i ragazzi. Ad alcuni di loro le competizioni piacciono. Ma alla maggior parte no. Desmond Wai, un medico la cui famiglia vive a Singapore, ha imparato questa lezione da suo figlio che a un certo punto ne aveva abbastanza di regate. Questa è la sua storia.
Mio figlio ama gli sport acquatici e da sempre ha manifestato il desiderio di apprendere la vela. Così quando io e mia moglie dovevamo scegliere la scuola primaria per lui, ne abbiamo cercata una in cui ci fosse una regolare attività velica complementare al corso di studio. Tuttavia in questa scuola si poteva accedere alla vela soltanto nel secondo livello, all’età di 7-8 anni, e come requisito minimo occorreva essere degli agonisti di Optimist. Così mio figlio ha seguito dei corsi di vela e alla fine del primo livello scolastico, quando aveva 7 anni, ha cominciato a gareggiare con gli Optimist. Arrivato quindi al secondo livello, è entrato a far parte della squadra velica della scuola che si allenava nel club Tanah Merah due volte alla settimana.
Nel 2017 il consiglio scolastico dell’istituto annunciò la creazione di una nuova squadra agonistica chiamata Green Fleet aperta a ogni ragazzo che voleva prendere parte a regate. Nonostante quelli appena arrivati non avevano le stesse abilità veliche dei ragazzi più grandi, potevano gareggiare nelle regate interscolastiche organizzate a partire dal mese di marzo. Non mi aspettavo certo che mio figlio fosse il nuovo Colin Cheng, il famoso velista olimpico. Volevo solo che si divertisse in sicurezza, quindi rimasi entusiasta quando completò la prima gara senza nemmeno una scuffia . Dopo questa competizione mio figlio continuò ad allenarsi sempre per due volte alla settimana. Tuttavia il suo entusiasmo a poco a poco diminuì. Cominciò a dimenticarsi di mettere alcune delle sue attrezzature nella borsa degli allenamenti e non aspettava più con trepidazione di andarsi ad allenare come prima. Finché un giorno al termine di un allenamento venne da me e mi disse. “Papà voglio smettere con la vela”.
Individualismo e agonismo nemici dei giovani
Io e mia moglie rimanemmo di stucco. Pensammo che era successo qualcosa. Non è sempre facile avere un dialogo aperto con i propri figli. A volte semplicemente i ragazzi non riescono ad esprimere ai propri genitori come si sentono realmente, altre volte non vogliono dirlo e basta. Ho passato molto tempo a parlare con mio figlio e ho capito per esempio che non era affatto vittima di episodi di bullismo durante quegli allenamenti in mare. I ragazzi sono ragazzi, ma la vela dopotutto è ancora uno sport da gentiluomini. Durante quelle chiacchierate ho capito invece che la vela aveva delle dinamiche che semplicemente non andavano a genio a mio figlio.
La vela è uno sport individuale. Ai velisti durante le competizioni è chiesto di completare un circuito nel minore tempo possibile. In un corso base i ragazzi imparano semplicemente i rudimenti della tecnica, ma una volta che diventano agonisti allora apprendono cose più specifiche sia sulla conduzione della barca che sulla gestione del campo di regata. Alcuni allenatori li spingono anche in maniera forte a cercare a tutti costi la vittoria. In questo sport l’agonismo può essere feroce e i risultati di ogni gara portano ognuno dei partecipanti ad avere un ranking durante la stagione. Non c’è nulla di sbagliato in queste classifiche. Sono semplici convenzioni della vela, come di altre discipline sportive. Mio figlio però, che all’epoca aveva solo 8 anni, trovava tutto questo insopportabile. Era spaventato dall’idea di perdere.
Più vinci, più ti alleni, altrimenti stai in banchina
Ho anche scoperto che l’allenatore di mio figlio tendeva a metterlo da parte, a concentrarsi su altri ragazzi, considerati migliori di lui. Forse mio figlio è molto sensibile a questi comportamenti. Quando mi sono confrontato con altri genitori ho saputo che in genere in questa scuola erano soliti dividere le squadre agonistiche in team di professionisti e team di amatori. Mio figlio faceva parte proprio di questi ultimi che pur essendo ragionevolmente bravi nella disciplina non erano mai eccellenti. Per raggiungere un livello eccellente i membri del team di professionisti avevano diritto a lezioni e allenamenti supplementari nel week end. Inoltre prendevano parte a regate contro le squadre scolastiche di altri istituti.
Sulla base delle prestazioni ottenute durante questi eventi, tutti i regatanti ottenevano dei punti nel personale ranking. Durante le regate interscolastiche soltanto le prime tre posizioni di quella classifica contavano. E ogni allenatore naturalmente voleva in squadra ragazzi all’altezza del podio.
Gli allenatori seguono gli atleti bravi, non i brocchi
È ragionevole quindi che gli stessi allenatori cercassero di seguire con più attenzione i ragazzi che ritenevano avere i migliori requisiti, che poi erano sempre nelle squadre di professionisti, e portare gloria e prestigio all’istituto. Questo fenomemo è proprio di tutte le scuole che hanno team sportivi. Per vincere è meglio avere in squadra pochi atleti con un ranking alto, piuttosto che molti velisti amatoriali. Per essere un atleta stellato bisogna lavorare duro, allenarsi e prendere parte a competizioni diverse. Tutto normale. Solo che per mio figlio tutto questo aveva il sapore di favoritismo. Per essere dei velisti professionisti a quell’età bisogna anche avere un supporto familiare e logistico. Per me per esempio era facile portarlo agli allenamenti due volte la settimana. Ma portarlo ad altri allenamenti durante il week end mi sarebbe stato impossibile per ragioni di lavoro. Anche specializzarsi è un requisito fondamentale di chi vuole fare vela ad alto livello. Non c’è spazio per altri hobby per esempio, come andare in bici o nuotare o suonare il pianoforte. Alcuni ragazzi, incluso mio figlio, vogliono invece dedicarsi anche ad altre attività.
Il Ministro dell’Educazione Ng Chee Meng ha appena annunciato il suo piano di rivedere le competizioni scolastiche nazionali riducendo la percezione di disagio degli allievi in questi eventi e cercando di incrementare le opportunità per i ragazzi anche solo di giocare e non solo competere. L’esperienza di mio figlio può essere di aiuto nel comprendere il valore di questo indirizzo governativo.
Come aiutare i nostri figli ad amare lo sport?
Allora cosa possiamo fare per aiutare i nostri ragazzi a praticare e amare lo sport?
Per prima cosa dobbiamo smettere di enfatizzare solo l’importanza della vittoria. Vincere deve essere un mezzo per raggiungere qualcos’altro, non un fine in sé stesso. Tutti i ragazzi devono fare qualunque sport, a prescindere dalle loro concrete abilità. In secondo luogo dobbiamo insegnargli a gestire gli errori e le sconfitte. Nella vita ci si presentano tante sfide e bisogna lavorare sodo per vincerle. Gli adulti però hanno gli strumenti per comprendere che le sconfitte sono quasi sempre maggiori delle vittorie. Una famoso proverbio cinese recita: “l’errore è la madre del successo”. Un allenatore dovrebbe insegnare ai suoi studenti come si fronteggia una sconfitta.
L’esperienza del coro e lo spirito di gruppo
Mio figlio attualmente ha raggiunto il terzo livello della scuola primaria e a 9 anni ha deciso di entrare nel coro musicale dell’istituto. Studia almeno due volte la settimana e si sta preparando per partecipare al Singapore Youth Festival che si terrà nel prossimo aprile. Mi sembra che il canto gli piaccia, suona le canzoni al pianoforte e mi chiede di accompagnarlo quando siamo a casa. Il suo insegnante cerca di prendersi cura di ogni singolo studente e farlo sentire importante.
Il coro rappresenta una bella attività di squadra. Per raggiungere ottime prestazioni come enseamble ogni membro deve aiutare gli altri. Nessun solista può rendere al meglio senza il supporto di tutto il gruppo. Come molti sport di squadra un coro alimenta lo spirito di squadra e il cameratismo. Questi valori sono cruciali nella formazione di un ragazzo e sono efficaci anche per dopo quando sarà adulto.
L’esperienza di mio figlio mi ha insegnato che è tempo di ripensare che modello di insegnamento vogliamo davvero per i nostri figli e quali valori dobbiamo trasmettergli. In mare come a terra.