Nuovi fondi sono stati recentemente stanziati dal governo italiano per far luce sui naufragi forzati delle navi cariche di rifiuti tossici e radioattivi in Mediterraneo da parte delle ecomafie. Sono circa 180 i relitti ancora presenti lungo le coste italiane.
I loro nomi sono quelli normali che si danno alle navi: Rigel, Messalina, Arcobaleno, Nicos 1, Cunsky, Jolly Rosso, Karin B., Marco Polo, Koraline. Ma di comune alle migliaia di cargo, portacontainer e pescherecci che navigano lungo le coste italiane hanno solo quello. Prima di tutto perché nessuna di loro naviga più, ma giace da qualche parte imprecisata sul fondo del mare. Secondo, perché il loro naufragio non è stato frutto di tempeste o eventi di forza maggiore, ma assolutamente voluto e cercato. Terzo, perché il loro carico era tutt’altro che legale: rifiuti tossici per lo più, bidoni di robaccia chimica, scorie industriali e materiale radioattivo.
Le hanno chiamate “navi a perdere”, secondo una nota locuzione inventata nel 1997 dal giornalista Pantaleone Sergi nell’ambito di un’inchiesta sulle navi della morte. Sono le navi affondate deliberatamente nelle acque italiane dalla criminalità organizzata, cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra, per circa un ventennio, dal 1979 al 2000. L’obiettivo di questi naufragi forzati era di incassare i premi delle assicurazioni, ma soprattutto provvedere allo smaltimento illegale dei loro carichi di rifiuti tossici con guadagni miliardari per le cosiddette “ecomafie”.
Ancora 180 navi sui nostri fondali
Quanti sono questi relitti fantasma in Mediterraneo? Dalle indagini più recenti è emerso che esistono almeno 180 navi affondate lungo le coste italiane con i loro carichi di rifiuti molto pericolosi che rischiano di passare sostanze tossiche ai pesci e da questi all’uomo. Per trovarle, scovarle a centinaia di metri di profondità, in questi giorni il Ministero dell’Ambiente ha stanziato un milione di euro per proseguire le indagini sulle navi a perdere.
Indagini importanti non solo per tentare di ridurre il loro inquinamento marino, ma anche per fare luce su questo agghiacciante traffico criminale e rendere giustizia a chi ci ha rimesso la vita per averlo scoperchiato, come per esempio il capitano Natale De Grazia della Marina Militare Italiana avvelenato nel 1996 mentre indagava sulle navi dei veleni insieme al magistrato Stefano Neri. Lo stesso ministro dell’Ambiente Sergio Costa ha anche annunciato di avere chiesto che il militare sia insignito alla memoria della medaglia d’oro ambientale, la più alta riconoscenza della repubblica in tema ambientale. Ma De Grazia non è la sola vittima di questo tragico traffico di mafia. Altre vittime illustri sono state la giornalista Ilaria Alpi e il suo operatore Miran Hrovatin.
Due libri sulle navi dei veleni
Per chi volesse approfondire la tematica ci sono due libri che se ne sono occupati in modo puntuale e dettagliato: “Navi a perdere” di Carlo Lucarelli che racconta dell’inchiesta partita dal ritrovamento della motonave Jolly Rosso, avvenuto nel 1990 sulla costa di Amantea in Calabria e che, tra coinvolgimenti dei servizi segreti e intercettazioni dei magistrati, prosegue fino alla morte in circostanze misteriose di Natale De Grazia; l’altro testo è “Plutonio e navi a perdere” di Monica Mistretta e Carlo Sarzana di Sant’Ippolito che segue la vicenda proiettandola sulla rete geopolitica internazionale che vedeva in quegli anni l’Italia come snodo centrale di traffici illeciti ma incentivati paradossalmente proprio dal referendum anti-nucleare italiano.