Un libro da collezione firmato Taschen si intitola Surfin e raccoglie immagini, illustrazioni e cimeli iconografici che rievocano la storia della disciplina surfistica entrata freneticamente nel tempio della cultura pop, come spinta dal vigore di un’onda oceanica.
Siamo ormai abituati all’immagine patinata del surfista che cavalca con assoluta nonchalance, sguardo cool, muscoli abbronzati e capelli lunghi, onde di dimensioni spropositate. Lo sport, l’avventura, il rischio, la natura, la libertà, la ribellione, tutto è perfettamente condensato in quella interpretazione edulcorata di una disciplina ormai sagomata non solo nella pop culture. Ma diventata espressione cristallina di un life style ammiccante e modaiolo, ideale secondo i pubblicitari, per rifilarci magliette, riviste, viaggi, profumi, scarpe e l’ultimo Suv di serie.
Ebbene che il surf, o meglio il cliché di questo sport, rappresenti un ottimo veicolo pubblicitario e una pagina importante della cultura pop però non è propriamente un’idea recente. Anzi, se si escludono gli albori della disciplina scoperta da James Cook durante uno dei suoi viaggi di esplorazione del Pacifico nel 1776 e i svariati decenni successivi in cui dalla Polinesia venne esportata lungo le coste degli Stati Uniti e dell’Australia, nel momento in cui surfare le onde con una tavola di legno smise di essere considerata pratica indecente (dai predicatori calvinisti) e non suicida (dalle mamme dei giovani yankee), in pratica entrò istantaneamente non solo nella lista di munizioni preferite da art director e copywriter, ma in quella ancora più rispettabile di “cose pop”.
Le tracce del surf sui media più popolari
A raccontarcelo è il bel libro Surfing, pubblicato dalla Taschen, celebre casa editrice tedesca di libri d’arte. Questo volume fotografico, di buona fattura e a prezzo accessibile (19 euro) nella filosofia che accompagna da qualche anno l’editore, fa parte della collana “365 Day-by-Day” (dedicata anche alle pin up, alle icone del cinema e alla città di New York). E raccoglie fotografie e illustrazioni – 365 appunto, una per ciascun giorno dell’anno – che immortalano le tracce lasciate nel tempo da questo sport nei media più popolari.
Il curatore del libro, Jim Heimann, direttore esecutivo della Taschen, non è un surfista ma un appassionato collezionista che da quando aveva 12 anni si è dilettato a scovare e raccogliere materiali relativi alla cultura pop californiana: immagini naturalmente, ma anche illustrazioni, menu di ristoranti, cartoline e poster di viaggi. Da quella collezione ha selezionato i cimeli dedicati proprio al surfing appunto e così ha dato vita al libro.
Da Mark Twain alle canzoni dei Beach Boys
Interessante perché spaziando dal 1870 agli Anni 70 lascia scoprire incisioni ottocentesche di hawaiani che praticano il surf, citazioni di Mark Twain e Jack London. Oltre a numerosi reportage di viaggi compiuti negli Anni 20 e 30, quando le crociere per le isole Hawaii venivano pubblicizzate, guarda un po’, con immagini legate alla cultura surf. E poi il culto del kitsch polinesiano che dopo la II Guerra Mondiale, quando tanti soldati e marinai erano di stanza nell’arcipelago, lanciò i tiki bar, la bongo music, il musical South Pacific di Rodgers e Hammerstein.
Quindi la cultura del surf Anni 60 praticato ancora per divertimento, con volti sorridenti di appassionati, uomini e donne, a districarsi nella difficile arte di bilanciarsi su un pezzo di legno spinto dalle onde; le celebrazioni nella musica con l’esplosione della surf music, Beach Boys & co., i viaggi a Tijuana a caccia di easy life, chicas e sballi a buon prezzo.
Quando il surf diventa rock: rabbia e localismo
Il volume è più sintetico e meno celebrativo riguardo agli Anni 70, quando le proteste degli studenti e la voglia di cambiamento dei giovani californiani venne riflessa in parte anche nel surf. Non solo perché le originali tavole lunghe che scivolavano con grazia sulle onde vennero sostituite da mezzi più corti e leggeri destinati a combattere la natura invece che a seguirne il flusso. Ma anche per il diffondersi degli sponsor, dei premi in denaro, per la netta divisione tra atleti e soul surfer. Insomma per l’imporsi della cosiddetta “surf rage” (ovvero l’ossessione che spinge un surfista a considerarsi padrone di un’onda) e del localismo che spingeva i surfisti a proteggere le loro spiagge allontanando in modo violento qualunque estraneo.
Ad arricchire le foto e le illustrazioni, ci sono infine bellissime citazioni, non meno importanti del testo, che esaltano il lato più profondo, contemplativo e filosofico del surf, quasi a voler compensare l’euforia edonistica e consumistica che quasi orgogliosamente trapela in tutto il resto.
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