Una panoramica sugli ultimi sviluppi nel campo dell’abbigliamento tecnico da vela in tema di sostenibilità ambientale, ciclo vita dei capi e il loro eventuale riciclaggio.
Abbigliamento da vela e sostenibilità. Ai tempi in cui vestirsi per andare a vela significava indossare un robusto capo in jersey a trama fitta o al massimo una cerata in plastica gialla, la sostenibilità era ancora un concetto sconosciuto. I tessuti principali a disposizione dei velisti in passato erano principalmente la lana e il cotone. Magari con un sottile rivestimento esterno in lattice o cera per offrire un minimo di impermeabilità.
Oggi, al contrario, esiste un’incredibile gamma di tessuti e indumenti tecnici che ci mantengono asciutti dentro e fuori senza limitare la nostra libertà di movimento quando siamo a bordo. E funzionano al caldo dei Tropici, come al Circolo Polare Artico, e soprattutto in condizioni di intensa attività. Anche il progresso e l’evoluzione tecnologica tuttavia hanno un costo. Questo perché come marinai ci affidiamo quasi esclusivamente a fibre sintetiche e tessuti prodotti dall’uomo che derivano dal petrolio.
Tanti strati di materiali, tanti problemi di sostenibilità
Il problema dell’abbigliamento tecnico da vela è in realtà molteplice perché si tratta di indumenti compositi costruiti in più strati. Lo strato esterno del tessuto è solitamente in poliestere o nylon, trattati con un rivestimento chiamato “DWR” (Durable Water Repellent), una sostanza chimica che fa scivolare via l’acqua. Tra lo strato interno e quello esterno dell’indumento si trova poi una membrana sintetica sottilissima, composta da un polimero.
Fino a poco tempo fa il DWR era prodotto con una famiglia di sostanze chimiche note come composti perfluorurati o “PFC”. Questi composti sono parenti del Teflon e sono descritti come “sostanze chimiche immortali” perché la loro caratteristica principale è quella di non decomporsi in natura. Sono a tutti gli effetti sostanze tossiche e la ricerca scientifica suggerisce che condizionano pesantemente il ciclo riproduttivo di flora e fauna. Anche molte membrane impermeabili, tra cui il Gore-Tex, sono realizzate con fogli di PTFE, sempre derivato del Teflon, che appartiene alla stessa famiglia di sostanze chimiche.
E allora i velisti e coloro che vanno per mare sono portati a fare due conti su questo punto, perché l’istinto di preservare gli elementi su cui facciamo affidamento è forte. Allo stesso tempo, però, nessuno vuole tornare ai tempi bui dei maglioni di lana zuppi e dei brividi di freddo.
Molto presto il PFC sarà vietato in campo tessile
Fortunatamente i produttori di filati, i giganti della chimica e le aziende di capi d’abbigliamento da barca si stanno muovendo tutti nella direzione della sostenibilità. Attualmente in molti Paesi la pressione normativa per l’eliminazione di tutti i trattamenti a base di PFC sta crescendo e la stessa Unione Europea sta studiando un divieto per il 2027. Quindi le aziende di abbigliamento nautico si stanno dando da fare per sviluppare alternative “verdi”.
Abbigliamento da vela e sostenibilità. L’azienda britannica Musto, per esempio, ha già formulato un trattamento privo di PFC, noto genericamente come C0. Ma uno dei problemi dei trattamenti C0 è che non respingono l’olio. Se questo riesce a penetrare nella membrana, i fori si aprono e col tempo diventano permeabili. I tecnici dell’azienda hanno quindi aggiunto altri elementi alla finitura tessile, mettendo però a rischio la traspirabilità dei capi. Alla fine hanno deciso di sostituire la membrana con una bicomponente e una sostanza idrofila all’interno.
Ecco come le aziende sostituiscono le fibre tossiche
Anche il marchio Gore, che certifica il tessuto utilizzato negli indumenti MPX e HPX, sta lavorando per eliminare il DWR dai suoi modelli e passare a una sostanza chimica simile al PFC non dannosa per l’ambiente. Gill invece già da tempo riserva a tutti i suoi capi impermeabili uno speciale trattamento XPEL a base vegetale e ritiene di essere l’unico marchio nautico a offrire un altissimo livello di idrorepellenza testato all’ultima edizione della regata oceanica Route du Rhum.
La stessa Zhik recentemente ha formulato un trattamento DWR “green”, che commercializza come “XWR”. È super elasticizzato e al momento è presente solo su alcuni dei top più leggeri. L’obiettivo dell’azienda tuttavia è di sfruttarlo su tutti i modelli in catalogo. Infine Henri Lloyd sta trasformando la produzione dei suoi capi da vela e inserendo un trattamento non a base di PFC.
Materie prime a base di sostanze riciclate
Sempre in tema di abbigliamento tecnico da barca e sostenibilità, sta diventando più facile ed economico raccogliere i rifiuti di plastica e trasformarli in filati vergini per le nuove generazioni di capi destinati ai velisti. Il nylon per esempio è tipicamente ricavato da reti da pesca dismesse, vecchi tappeti e fibre di scarto post-industriali. Mentre il poliestere è prodotto da vecchie bottiglie di bevande in PET. I vantaggi del riutilizzo sono enormi: si evitano miliardi di rifiuti in discarica e si consuma meno della metà dell’energia rispetto al materiale vergine. Il filato riciclato e quello vergine inoltre sono indistinguibili, quindi non c’è differenza di prestazioni.
Abbigliamento da vela e sostenibilità. Per questo molti marchi di capi da vela utilizzano già da tempo materiali riciclati. Nell’ultimo anno per esempio Helly Hansen ha convertito tutti i suoi modelli impermeabili con il 100 per cento di filato riciclato attraverso il programma “Ocean Bound”. Molti dei prodotti delle linee di abbigliamento di punta HPX e MPX di Musto incorporano circa il 50 per ecnto di poliestere riciclato. L’OS2 di Gill utilizza nylon riciclato per il guscio e fodera in pile di poliestere riciclato, arrivando a una giacca riciclata al 98 per cento. Anche Slam include un’alta percentuale di filato riciclato nei suoi capi.
Programmi di riciclaggio dei capi da vela: un’idea geniale
Qualcuno s’ingegna anche con programmi di riciclaggio riservati ai clienti. Henri Lloyd collabora con un’organizzazione no-profit chiamata Worn By Us che fa in modo che i clienti britannici possano riciclare gli indumenti a fine vita. Se gli indumenti sono ancora utilizzabili, vengono messi in vendita e il proprietario riceve uno sconto del 40 per cento sul prezzo. Nella peggiore delle ipotesi, i vecchi abiti vengono stracciati e utilizzati come isolanti per gli edifici. Anche Zhik e Finisterre offrono programmi di riciclaggio.
Ma il vero riciclaggio dovrebbe essere quello “circolare”, ossia arrivando a trasformare le vecchie giacche da vela in capi nuovi. Ma qui ci sono alcuni problemi da superare. Uno di questi è il modo in cui i tessuti e i materiali sono mescolati in un laminato, uno strato esterno in nylon, una membrana in PTFE e poliuretano, una rete interna in poliestere. Senza contare gli adesivi, le cerniere in plastica, i patch riflettenti, il filo e il nastro per cuciture. Attualmente non è possibile smontare il tutto nei suoi componenti.