In una sconvolgente inchiesta durata cinque anni e dal titolo “Oceani fuorilegge” il giornalista statunitense Ian Urbina descrive come i mari di tutto il mondo siano a tutti gli effetti una frontiera selvaggia e senza regole dove si commettono i peggiori crimini e dove la vita umana non vale nulla.
Spesso chi scrive di mare, di turismo nautico, di barche, è solito celebrare il senso di libertà che danno gli oceani una volta che si lascia la terraferma. È una visione piena di retorica, legata al viaggio e nutrita del mito di tanta letteratura di mare che per secoli, dai tempi delle prime esplorazioni, ha raccontato di eroi, vagabondi e viaggiatori che con gli oceani facevano un patto: dedizione e coraggio per affrontare infinito e mistero, in cambio di libertà e avventura. Ancora oggi sono in molti a scegliere di navigare e vivere sugli oceani, magari a bordo di una bella barca a vela.
Ecco forse per loro e pochissimi altri gli oceani sono un simbolo di libertà. Perché per tutti gli altri i mari del mondo sono semplicemente una gabbia, una prigione, una terra senza regole dove si commettono i peggiori crimini, dove si calpestano i diritti, dove la vita non vale nulla e i cattivi della Terra sono i padroni assoluti. È questa la triste realtà che emerge dal libro inchiesta “Oceani Fuorilegge” (Mondadori) del giornalista investigativo del New York Times e vincitore del premio Pulitzer Ian Urbina. Per cinque anni il reporter ha viaggiato da una parte all’altra del mondo a bordo di navi, pescherecci, flotte della Guardia Costiera, navi di pattuglia della polizia marittima, vascelli di gruppi ambientalisti come Greenpeace e Sea Shepherd per documentare ciò che accade in mare aperto.
Oceani: i crimini del mare rimangono impuniti
Fra trafficanti e contrabbandieri, pirati e mercenari, ladri di relitti e pescatori di frodo, conservazionisti e bracconieri inafferrabili, fornitori di aborti semi-illegali, schiavi e clandestini lasciati morire alla deriva, ma anche ecologisti, giustizieri, medici e volontari, Urbina racconta un mondo ricco di coraggio e brutalità, dove sopravvivenza e tragedia camminano sempre a braccetto e il crimine e la violenza rimangono impuniti perché l’incertezza del diritto lascia loro campo libero.
Il libro affronta una storia per ognuno dei suoi 15 capitoli. C’è l’inseguimento al cardiopalma del peschereccio Thunder con gli attivisti di Sea Shepherd per più di cento giorni, e undicimila miglia nell’oceano Antartico. C’è la lotta alla pirateria in Somalia, quella eroica contro la pesca illegale di Palau; ci sono gli uomini venduti come merce da intermediari senza scrupoli e quelli sotto sequestro per mesi su prigioni galleggianti. C’è la storia di Rebecca Gomperts, medico olandese a capo di Women on waves, che naviga su una barca a vela registrata in Austria per aiutare le donne ad abortire se nel loro paese è reato. Una specie di “ambasciata medica galleggiante” appena oltre le 12 miglia dalla costa. “Per quanto di straordinaria bellezza”, scrive Urbina, “l’oceano è anche un luogo distopico, teatro di atti oscuri di disumanità, dove la disciplina della legge, così solida sulla terraferma, diventa fluida, quando non si sgretola del tutto”.
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Oceani: quei registri navali di Paesi senza regole
Una delle cause di questo mondo senza regole è il fatto che Paesi senza sbocco sul mare, come la Mongolia o la Bolivia, sono titolari di registri navali. La Liberia poi, che affaccia sull’Atlantico, ha il più grande registro del mondo, amministrato fuori dei suoi confini da un’azienda della Virginia. Un paradosso frutto di un processo avviato dopo la Prima Guerra Mondiale, quando gli Stati Uniti vendettero le proprie navi in eccesso a Panama consentendo a scaltri imprenditori di continuare a gestirle aggirando la legge. I paesi titolari di registro dovrebbero tutelare i lavoratori del mare, garantire la loro sicurezza e il rispetto delle leggi ambientali. Dovrebbero farsi carico delle eventuali inchieste quando necessario. Ma, lontano dalle coste, Urbina descrive le acque internazionali come un mondo parallelo, una frontiera da oltrepassare a proprio rischio che si presta a una specie di sindrome dello spettatore: la presunzione inamovibile e patologica che qualcun altro penserà alla vigilanza e rimedierà ai crimini”.
Circa la metà della popolazione mondiale vive a meno di 150 chilometri dall’oceano e sulle navi mercantili viaggiano il 90 per cento delle merci di tutto il mondo. Ma l’oceano continua a restare una distesa enorme, anche con i mezzi e le tecnologie di oggi, in grado di garantire una logica di impunibilità infallibile, che permette ai suoi protagonisti, ladri di relitti e mercenari, scaricatori clandestini di petrolio e pescatori di frodo, clandestini e balenieri ribelli di nascondersi con destrezza in una terra di nessuno, in cui invece Urbina si muove con abilità, per raccontarci la crudeltà della vita in mare, dove vige la legge del più forte, che annienta chi invece viene sconfitto. “Dopo 17 anni – racconta Urbina – ho lasciato il New York Times perché nessuno racconta quello che succede in alto mare e l’urgenza di ciò che accade là fuori. Volevo affrontare queste storie con un approccio nuovo per sostenere un cambiamento effettivo”.