Come gestire l’isolamento: la lezione degli esploratori

In questi giorni di emergenza da Coronavirus una delle sfide più difficili per tutti è riuscire a gestire l’isolamento forzato, necessario per limitare il numero dei contagi. Un’arte che si può imparare da coloro che per professione ci convivono da sempre, come per esempio gli esploratori polari.

L’Antartide, l’ultimo continente bianco è l’unico posto al mondo sfuggito alla pandemia del Covid-19. Affrontare l’isolamento lì è dura, si vive immersi nel buio su un’interminabile distesa di ghiaccio e con temperature che possono scendere fino a 90 gradi sotto zero, soprattutto quando soffiano furiosi i venti. Ma l’Antartide non è completamente disabitata anche in questo periodo dell’anno. Ci sono squadre di oceanografi, meteorologi ed esploratori che occupano le basi scientifiche dislocate ai margini del continente. Tra queste c’è la base antartica italo-francese Concordia dove si trova anche un team di italiani.

“Nonostante il mondo sia afflitto dal virus, qui possiamo ancora abbracciarci”, dicono. “Per questo quando siamo partiti le nostre famiglie erano preoccupate per noi, ma ora accade il contrario. Ci dicono per fortuna lì siete al sicuro e siamo noi a essere in pensiero per loro”, racconta il fisico dell’atmosfera Alberto Salvati, responsabile della base. Con Salvati lavorano sette fra ricercatori e tecnici francesi e una ricercatrice olandese dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa). I sentimenti di ogni membro dell’equipaggio sono contrastanti, mentre la pandemia colpisce i loro Paesi. “Da un lato – dice Salvati – ci si sente privilegiati perché qui non è arrivato il virus, ma questo sentimento è sopraffatto dal dispiacere di non poter essere vicini ai nostri affetti. Quando partiamo per l’Antartide sappiamo che per 9 mesi saremo isolati e che non potremo andare via in nessun caso. Certo noi possiamo uscire, ma qui uscire dalla nostra base significa affrontare un pericolo costante”.

Quali armi per vincere l’isolamento forzato?

In Antartide, esattamente come al Polo Nord, anche se non c’è il rischio di contrarre il Coronavirus, rimane la sfida dell’isolamento che però c’è sempre stato per coloro che si spingono per lavoro fino a queste latitudini. Ebbene, come fanno queste persone a convivere quotidianamente con la reclusione forzata, la solitudine, il senso di vuoto? Un indizio arriva proprio dai diari degli esploratori che all’inizio del secolo scorso per primi affrontarono queste terre ancora oggi remote e in massima parte deserte.

Chi seppe resistere all’isolamento, alla noia, al freddo, alla fame e a lunghi mesi di oscurità, ci riuscì facendo appello a ogni possibile risorsa cognitiva. A leggerli oggi questi resoconti e soprattutto constatare le loro armi anti-isolamento fanno riflettere e potrebbero rivelarsi molto utili anche per noi.

La scrittura di diari di bordo e giornali di viaggio

Per ingannare il tempo ma anche per tenersi occupati con un’attività utile gli esploratori polari tenevano per esempio diari di bordo e giornali di viaggio che aggiornavano quasi ogni giorno. Il diario era un racconto personale, intimo e introspettivo che aveva lo scopo di sfogarsi, lasciare un ricordo alla famiglia o assicurarsi una rendita a fine spedizione con i diritti editoriali. Il giornale di viaggio invece era la cronaca degli eventi più curiosi avvenuti durante la spedizione, del meteo o delle visite di animali all’accampamento, oltre a un’esposizione dettagliata di tutti i risultati scientifici raggiunti.

Nelle spedizioni antartiche ci sono entrambe questi “generi letterari” che potrebbero tornarci utili anche a noi oggi visto che la scrittura aiuta a vedere ogni giorno nella sua originalità, interrompendo la monotonia di giornate tutte uguali.

Studio delle lingue e letture letterarie

Tra le attività svolte dai primi esploratori polari per combattere l’isolamento c’era anche lo studio delle lingue o di testi letterari. Per esempio l’esploratore norvegese Roald Amundsen, a capo della spedizione antartica Fram del 1910-1912, la prima a raggiungere il Polo Sud geografico, decise di studiare il russo: la difficoltà della grammatica della nuova lingua fece sì che non esaurisse le pagine del suo libro troppo velocemente.

Anche la nave Endurance capitanata dal grande Sir Ernest Shackleton aveva a bordo una piccola biblioteca con poesie, opere teatrali, racconti di viaggio, l’Enciclopedia Britannica e alcuni racconti. Quando fu costretto ad abbandonare la nave rimasta incastrata dai ghiacci, Shackleton portò con sé una poesia di Rudyard Kipling su una pagina strappata.

Il cibo come bene vitale, anche per l’anima

Per gli uomini delle spedizioni polari non mancavano le privazioni, come per esempio il cibo. Le scorte di alimenti erano limitate e il rancio giornaliero era composto prevalentemente da carne secca, grasso in scatola e cereali, alternati a carne di foca o di pinguino. Per questo motivo, le conversazioni degli equipaggi vertevano insistentemente su cosa si sarebbe cucinato una volta tornati a casa. Quanto al consumo di alcolici, non tutte le spedizioni avevano lo stesso approccio. Per alcuni team, il rischio di avere uomini ubriachi nell’ambiente più ostile alla vita del pianeta era eccessivo.

Non la pensava così però l’esploratore Amundsen, primo uomo a raggiungere il Polo Sud, che vedeva nel vino o nei liquori bevuti con moderazione una vera e propria medicina per combattere la solitudine polare e anche uno strumento strategico per sanare gli screzi tra i suoi uomini ed eventuali problemi di ammutinamento.

La compagnia preziosa di musica e giochi da tavolo

Potrebbe sembrare paradossale, ma anche nei luoghi più ostili del mondo, come le calotte polari, la musica è stata tutt’altro che superflua per gli uomini delle prime spedizioni esplorative. La Scottish National Antarctic Expedition (1902-04), la prima spedizione a stabilire una stazione meteorologica abitabile nel continente ghiacciato, fu accompagnata per esempio dalle note di una cornamusa: lo strumento era addirittura incluso nell’equipaggiamento ufficiale dei componenti. Nel 1934, quando l’ammiraglio statunitense Richard E. Byrd trascorse 5 mesi da solo nella base antartica Advance Base, si portò dietro un fonografo (un antenato del grammofono) e definì la musica “l’unico vero lusso” di quel soggiorno. E ancora quando Ernest Shackleton dovette abbandonare con i suoi uomini la nave Endurance, insistette affinché Leonard Hussey, uno degli uomini del suo equipaggio, portasse a terra anche il suo banjo, ben più pesante del chilo scarso di materiale che a ciascuno era stato concesso di sbarcare. Quello strumento sarebbe stata una medicina vitale per le settimane successive e Shackleton lo sapeva.

Per quanto riguarda altri passatempi, carte e scacchi erano all’epoca i giochi più facili da trasportare e i più frequenti nelle spedizioni polari di inizio secolo. L’esploratore britannico Robert Falcon Scott, durante la spedizione antartica Terra Nova (1910-1913) che gli fu fatale, scriveva: «Il nostro gioco più popolare per la ricreazione serale sono gli scacchi; ormai ci sono così tanti giocatori che due set di pezzi non bastano”.

David Ingiosi

Appassionato di vela e sport acquatici, esperto di diporto nautico, ha una lunga esperienza come redattore e reporter per testate nazionali e internazionali dove si è occupato di tutte le classi veliche, dalle piccole derive ai trimarani oceanici

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