Rincorrere il tempo, macinare miglia, sfidare sé stessi e la natura sono tentazioni irresistibili per l’uomo fin dagli albori della navigazione. Le sfide di velocità in mare sono nate per il desiderio di conquista all’inizio, poi per la ricerca del profitto e infine per ottenere gloria e prestigio personale.
La conquista di nuovi record di navigazione a vela occupa ormai da vari anni la cronaca degli avvenimenti sportivi in giro per il mondo. Ciò che un tempo rappresentava qualcosa di sbalorditivo, l’estensione di un limite, la realizzazione di un sogno, assume oggi un valore relativo, pronto a essere smentito a distanza di poco tempo. Eppure queste imprese riescono sempre a catturare l’attenzione degli appassionati, laddove si coglie il reale salto della tecnica, l’onestà dell’esperienza umana, l’eco di qualche avventura epica. Quei valori cioè che da sempre accompagnano la storia dei primati a vela.
Una storia che peraltro ha contribuito in maniera sostanziale allo sviluppo della nautica da diporto, in termini di costruzione di scafi, tecniche di navigazione e sistemi di sicurezza. Ma come nasce questa corsa al primato?
L’uomo ha sempre voluto essere più veloce in mare
Le sfide di velocità a vela hanno una radice lontana. La velocità infatti è un mito che accompagna da sempre l’uomo e va di pari passo con l’idea di progresso, anche in campo nautico. Viaggiare veloce è un concetto che fin dagli albori della navigazione a vela ha guidato e condizionato marinai e imbarcazioni, per ragioni espansionistiche, economiche e strategiche. La possibilità di raggiungere per primi terre di conquista o importanti scali commerciali ha sempre rappresentato per i popoli del mare un fattore cruciale: chi arrivava in testa agli altri, occupava il territorio o stabiliva i prezzi delle mercanzie; possedere i mezzi navali più veloci, oltre che meglio armati, era inoltre decisivo sui campi di battaglia, sia in caso di attacco che di ripiegamento.
I Clipper, le prime “Formula Uno” del mare
Un’esigenza fondamentale, quella della sfida contro il tempo, che nella storia della marineria velica raggiunge forse l’espressione più alta durante l’epoca dei Clipper, nel XIX secolo. I Clipper erano veloci navi oceaniche a tre o più alberi adibite al trasporto delle merci, in particolare spezie, seta, lana e thè, prodotti poco ingombranti e molto redditizi. Questi vascelli venivano progettati, infatti, per navigare alla massima velocità possibile, anche a costo di sacrificare la loro capacità di carico e disponevano di grandi superfici veliche, maggiorate rispetto alle altre navi commerciali.
Un Clipper poteva raggiungere facilmente una velocità di 9 nodi, con punte di 20, quando la velocità massima delle altre navi non superava i 5 nodi. La stessa origine del nome, Clipper, viene ricondotta al verbo “to clip” (in inglese “tagliare”), nel senso di accorciare i tempi di navigazione. La feroce rivalità tra le varie compagnie marittime inglesi, olandesi e statunitensi, arrivò a creare tra il 1840 e il 1870 addirittura una serie di competizioni di Clipper attraverso gli oceani, peraltro molto seguite dai giornali dell’epoca, come la Great Tea Race o la Wool Race, che si disputavano sulle rotte tra l’Oriente e la Vecchia Europa.
Dalla ricerca del profitto alla voglia di gloria
Questa ricerca della velocità a vela che impegnava progettisti, cantieri e società di trasporto, ebbe però un brusco arresto verso la fine del XIX secolo quando, con l’avvento dell’età moderna le navi a vapore sostituirono i grandi velieri commerciali. In realtà si trattò di una svolta importante nell’evoluzione della navigazione a vela ad alta velocità. Non più condizionato dal profitto, dai carichi da imbarcare e dai tempi di consegna, infatti, l’utilizzo di barche a vela divenne pura attività sportiva e la velocità fu messa al servizio delle vittorie sui campi di regata.
Nacquero le grandi sfide oceaniche e grazie al sostegno economico di ricchi armatori, progettisti e skipper cominciarono a sfidarsi nella ricerca di scafi concepiti esclusivamente per correre più veloce. L’importante era non solo arrivare primi al traguardo, ma anche completare una determinata rotta nel minore tempo possibile. Una sfida contro il tempo appunto, ma anche contro la natura e contro sé stessi. Si era aperta definitivamente la strada per la conquista dei record.
Il grande circo della velocità in oceano
Una strada che ha rappresentato e che rappresenta ancora oggi forse l’aspetto più tecnologico e consumistico della vela, assai lontano dalla normale navigazione da diporto, e che negli anni ha visto schierati in prima linea marinai più interessati a incrementare il proprio palmares agonistico e la propria fama, piuttosto che a dare il proprio contributo alla crescita di questa disciplina. Emblematica in questo senso la vicenda del miliardario americano Steve Fosset che ha speso la propria passione di velista, e buona parte del patrimonio, nel collezionare febbrilmente un record mondiale dopo l’altro, o ancora la recente tendenza di alcuni navigatori di aprire continuamente nuove rotte, ratificare percorso e tempo effettuati, e assicurarsi un primato il cui valore, in mancanza di altri tentativi, lascia piuttosto perplessi. Un altro accanito fanatico della velocità a vela è Bruno Peyron che ha sempre inseguito il primato sul giro del mondo durante tutta la sua carriera ed è stato lui stesso il primo ad aprire la corsa al record nel 1993 a bordo del catamarano Commodore Explorer.
Ma anche un settore, quello dei primati velici, che inevitabilmente porta con sé un alone di mito e di leggenda, che rievoca rotte classiche e pionieri delle traversate oceaniche, e non da ultimo, che richiama l’attenzione e appassiona il pubblico.