Il giro del mondo a tappe in equipaggio è una delle competizioni a vela più dure al mondo. Si naviga a oltre 30 nodi in condizioni climatiche estreme, si consumano cibi congelati sottovuoto, si dorme ammassati sottocoperta in un fracasso infernale, non ci si lava, non c’è privacy, si riposa poche ore al giorno. Se ti rompi una gamba o la schiena o ti fa male un dente, devi resistere. Eppure non c’è velista al mondo che non sogni di partecipare alla Volvo Ocean Race.
Ci sono sport estenuanti. Poi c’è la Volvo Ocean Race. Questo giro del mondo a tappe in equipaggio, è una delle competizioni più dure nel panorama delle regate oceaniche. Nata come Whitbread Round the World Race nel 1973 sull’onda delle circumnavigazioni in solitario compiute da Francis Chichester (1966) e da Robin Knox-Johnston (1968) e finanziata da una celebre birra neozelandese, la Whitbread appunto, questa storica regata ha sempre rappresentato una prova sportiva estrema che per circa nove mesi impegna equipaggi, barche e team di supporto ai quattro angoli del globo. Da quella prima edizione la Whitbread si è corsa ogni quattro anni su percorsi sempre diversi, fino a diventare nel 2001 la Volvo Ocean Race, grazie all’ingresso come sponsor della celebre casa automobilistica svedese.
A dare il sapore dell’avventura e alimentare il mito di questa competizione che annovera nel suo albo d’oro fuoriclasse della vela oceanica come Grant Dalton, Peter Blake, Chris Dickson e Dennis Conner, c’è innanzitutto il percorso: una circumnavigazione del globo che si snoda lungo circa 39.270 miglia attraverso gli oceani Atlantico, Indiano e Pacifico e con i passaggi di Capo di Buona Speranza e del mitico Capo Horn, un tragitto durante il quale la flotta si confronta con le più svariate condizioni meteomarine: dalle onde incrociate e burrasche che infuriano nei “40 ruggenti” alle bonacce tipiche delle latitudini equatoriali.
Soli e vulnerabili in mezzo all’oceano
Oltre alle indiscutibili doti veliche per lanciare costantemente la barca alla maggiore velocità possibile, chi partecipa a questa regata deve avere nervi saldi e una resistenza fisica notevole per superare gli sfiancanti turni di guardia, la privazione del sonno e i ritmi serrati di navigazione. “Immaginate di essere seduti sul vostro piccolo guscio nel bel mezzo dell’oceano. Tutto attorno ci sono onde enormi, venti sferzanti e voi siete soli. Si realizza quanto davvero siamo vulnerabili”, afferma Bouwe Bekking, lo skipper olandese di Team Brunel in gara nell’ultima edizione della regata.
Bekking, a 54 anni, è il velista più esperto nella storia di questa competizione. Ha preso parte a 8 edizioni della Volvo Ocean Race. “È un lavoro molto bagnato. Quando viaggiamo a 30-40 nodi c’è acqua in coperta per tutto il tempo. È qualcosa di speciale perché sei impegnato 24 ore al giorno, per questo è una competizione unica”, continua Bekking.
Prima era un viaggio, ora è uno sprint oceanico
“È nata come un viaggio oceanico. Ora è diventato un sprint in oceano”, racconta Barry Pickthall, autore del volume “Sailing Legends: Volvo Ocean Race”. Oggi è a tutti gli effetti una regata di barche super professionali realizzate con budget milionari. Ogni scafo pesa 12.500 chilogrammi di carbonio. Con i cosiddetti on board reporter gli appassionati possono seguire praticamente in diretta la regata e la vita a bordo degli equipaggi. La Volvo Ocean Race anche per la sua copertura mediatica è l’avanguardia dello sport della vela. Certamente è una laboratorio eccezionale per la progettazione nautica e la tecnologia applicata alla vela.
A dispetto di tutte le innovazioni tecnologiche, la vita a bordo è primitiva. Ogni tappa dura circa 20-25 giorni. Per ridurre i pesi a bordo gli equipaggi congelano alimenti sottovuoto. Non c’è possibilità di lavarsi e di sciacquare pentole o posate o di fare il bucato. È freddo, è caldo, non c’è privacy. Si dorme in piccole cuccette ammassate sotto la coperta dove c’è sempre un rumore allucinante. In una notte di riposo i membri dell’equipaggio possono dormire dalle 2 alle 4 ore.
Farsi male a bordo può essere un inferno
Quando l’arbitro è madre natura le cose possono andare anche terribilmente storte. Come è successo ad Annie Lush, trimmer di Team Brunel, che prima di competere alla Volvo Ocean Race veniva dalla vela olimpica. Quest’anno, durante la terza tappa della regata da Cape Town a Melbourne, mentre la barca avanzava senza sosta con venti a oltre 60 nodi un’onda ha spazzato la coperta trascinandola per diversi metri e sbattendola contro le attrezzature. Nell’urto Annie si è spezzata le ossa di un piede e della schiena. Gli altri membri dell’equipaggio hanno cercato di immobilizzarla e tenerla al caldo per 10 giorni prima di raggiungere la terraferma durante i quali in quella specie di lavatrice che era la barca ha sofferto le pene dell’inferno.
L’Everest della vela
“Quando scegli di partecipare a una gara come la Volvo Ocean Race ti prendi i tuoi rischi, che sono molto simili a quelli che incontra chi decide di scalare l’Everest. Nessuno ti può soccorrere”, racconta Annie Lush. “Può sembrare orribile e in molti casi lo è ma è anche altrettanto fantastico. Non avrei parole per descrivere certi tramonti o le albe che si vedono, oppure le balene e i delfini”. Si vedono anche cose spiacevoli, come per esempio quantità enormi di plastica e segnali importanti di inquinamento. Non importa quanto sei lontano dalla terraferma, può essere Capo Horn o la Penisola Antartica, vedi immondizia e detriti ovunque e animali circondati da buste di plastica”, dice Lush.
Ti senti pronto per scalare l’Everest?