Perdere la chiglia, l’avaria più grave. Come e perché succede?

C’è chi riesce a portare a casa la pelle, ma anche chi dopo la perdita della chiglia alla propria barca, non torna a casa. Perdere la chiglia per una barca a vela è infatti uno degli incidenti più gravi, ma anche quello che lascia più attoniti e impotenti i diportisti. Perché succede e come cautelarsi?

Perdere la chiglia per una barca a vela è uno degli incidenti più gravi che possa capitare in navigazione. Non solo compromette la capacità di manovrare dello scafo, ma anche la sua stessa galleggiabilità e può molto facilmente portare all’affondamento, anche repentino dell’imbarcazione con conseguenze disastrose per l’equipaggio. Ogni tanto succede, non molto spesso per fortuna, ma ogni volta è un colpo al cuore per qualunque appassionato, per non parlare dei soggetti direttamente coinvolti che in alcuni casi ci hanno rimesso la vita.

Un grave incidente: il Talagoa

Uno degli incidenti più gravi che ha avuto come causa proprio la perdita della chiglia è stato quello che coinvolse all’inizio di aprile 2016 il Talagoa, uno sloop d’acciaio di 48 piedi mentre navigava nelle acque di San Andres (Caraibi). La settimana precedente al ritrovamento del relitto sulle spiagge dell’isola caraibica di San Andres la Guardia Costiera colombiana rinvenne i corpi dell’equipaggio: due velisti olandesi, Waldy e Ria Finke, rispettivamente di 75 e 69 anni. Il Talagoa invece venne trovato privo di chiglia e capovolto in mezzo agli scogli del Cayo Bolivar. All’epoca gli inquirenti stabilirono che c’era stato un cedimento strutturale della chiglia che comportò il capovolgimento repentino della barca.

La coppia di olandesi navigava intorno al mondo sul Talagoa da 15 anni e comunicava con i figli ogni giorno. Fu proprio il figlio Waldemar che non sentiva i genitori da due giorni a dare l’allarme. I coniugi Finke erano molto attenti al fattore sicurezza: avevano studiato ogni particolare della barca e avevano fatto di tutto per renderla più sicura. Nel primo anno di navigazione sul Talagoa avevano preso una terribile burrasca con vento forza Beafourt 12 e in quell’occasione avevano avuto la conferma che il Talagoa era una barca sicura.

I dispersi del Cheeki Rafiki

Due anni prima, nel maggio del 2014, un incidente simile che costò la vita a quattro velisti esperti venne registrato ai danni del Cheeki Rafiki, un Bénéteau First 40.7. La barca perse la chiglia a circa 720 miglia dalla Nuova Scozia e si rovesciò: l’equipaggio non venne mai ritrovato. La Marine Accident Investigation Branch (IAMB), un organo del governo del Regno Unito che indaga sugli incidenti in mare, al termine del lavoro d’indagine, rese note le sue conclusioni: pur sottolineando l’impossibilità di esaminare lo scafo stabilì che il distacco della chiglia del Cheeki Rafiki era probabilmente dovuto a ripetuti danni che, negli anni, avevano portato ad un indebolimento delle strutture. La barca, destinata al charter, aveva infatti subito diversi incagliamenti e conseguenti riparazioni, forse non effettuate con la dovuta perizia. Le strutture indebolite e gli sforzi intensi e prolungati dovuti a una lunga navigazione di bolina con venti molto forti, insieme a un probabile deterioramento di alcuni bulloni che reggevano il bulbo, determinarono il cedimento delle strutture e il conseguente distacco della chiglia con immediato capovolgimento.

La chiglia persa che ha rovinato il cantiere Oyester

In altri casi il cedimento strutturale della chiglia è stato imputato non al deterioramento dei componenti, ma addirittura a una costruzione sbagliata. Ci riferiamo al naufragio del Polina Star III, un 825 di 27 metri di proprietà di un armatore russo che il 4 luglio del 2015 fece naufragio a causa del distacco della chiglia mentre navigava di fronte alle coste spagnole. L’affondamento dello yacht, vista l’entità della falla, fu immediato. Non ci furono vittime tra i membri dell’equipaggio solo grazie all’intervento tempestivo del comandante dell’imbarcazione che qualche minuto prima, messo in allarme da rumori insoliti e sinistri provenienti dallo scafo, aveva ordinato l’abbandono della nave e fatto scendere l’intero equipaggio sulla zattera di salvataggio.

L’indagine tecnica della commissione d’inchiesta posta in essere successivamente sul relitto della barca fece nascere molti dubbi sulla reale qualità del livello costruttivo del cantiere inglese Oyster che era stato sino a quel momento giudicato uno dei migliori al mondo. Quella perdita di fiducia da parte della comunità dei diportisti e degli addetti ai lavori dopo un errore così grave fu anche decisiva per la crisi definitiva del cantiere britannico.

Il caso Bavaria del 2005

Ma il cantiere Oyster non è stato il solo a essere coinvolto in incidenti simili. Nel 2005 un particolare evento concentrò l’attenzione pubblica sulle imbarcazioni del cantiere Bavaria. Una società di charter croata acquistò 20 Bavaria 42 Match per il noleggio. Durante una regata una di queste imbarcazioni perse la chiglia (forse urtando contro uno scoglio), l’equipaggio di 6 persone venne soccorso ma uno di essi perse la vita. Dopo un attento esame si scoprì che quasi tutte le barche acquistate dalla società croata presentavano evidenti tracce di collisioni contro scogli. Oltre allo scalpore che suscitò la vicenda ci furono diverse cause e, anche se il cantiere tedesco le vinse tutte, decise di intervenire su tutti i modelli venduti fino allora, rinforzando l’attaccatura della chiglia con grosse piastre di acciaio.

Perdere la chiglia in regata

A subire la perdita della chiglia negli anni sono state anche alcune celebri barche da regata. Nel 2009 lo skipper francese Roland Jourdain perse completamente la chiglia del suo Open 60 Imoca durante una tappa della Vendée Globe ma riuscì a raggiungere la terraferma, navigando per due giorni senza ribaltarsi. Nel 2013, sempre durante il Vendée Globe, l’Imoca 60 Vibrac Paprec, sotto il comando di Jean Pierre Dick, rimase anch’esso senza chiglia, anche in questo caso senza conseguenze troppo gravi per lo skipper. Lo stesso navigatore italiano Matteo Miceli il 13 marzo 2015 dovette arrendersi alla perdita della chiglia del suo Eco 40 al largo del Brasile mentre era impegnato nel giro del mondo Roma-Ocean-World

Certamente incidenti del genere possono essere più probabili e accettabili durante competizioni oceaniche estreme che coinvolgono barche speciali, progettate e strutturate con coefficienti di sicurezza giudicati ottimali per in certe condizioni limite. Più difficile spiegare incidenti di questo tipo che riguardano barche da crociera destinate a navigazioni di routine e anzi spesso ad uso noleggio. Perché queste barche normali perdono la chiglia? Spesso senza nemmeno urtare scogli, banchi di sabbia o container alla deriva.  Sono incidenti terribili che colpiscono molto la comunità velica. In molti si chiedono: “Ma è possibile che la chiglia di un cabinato moderno si stacchi così, da un momento all’altro? Sì, è possibile.

Lo strano caso del Tyger of London

L’ultimo incidente di questo tipo ha coinvolto nel dicembre 2017 il Tyger of London, un Comet 45S che ha perso la chiglia mentre navigava a largo delle isole Canarie in un mare molto mosso, con vento a 20 nodi e raffiche fino a 30. A bordo della barca quattro uomini e una donna. Persa la chiglia, la barca si è capovolta immediatamente di 180 gradi e l’equipaggio è stato gettato fuori bordo. Fortunatamente a breve distanza navigava il Santa Barbara, un Rustler 42 che è corso immediatamente in soccorso del Tyger of London recuperando, con non poche difficoltà, i cinque naufraghi.

Interpellato sulla vicenda dalla testata SoloVela Massimo Guardigli, titolare della Comar, ipotizzò nell’immediato un cedimento strutturale causato da una delaminazione ovvero il totale scollamento tra due strati adiacenti del laminato per compressione. Eventualità che può capitare se la barca nel passato ha urtato degli scogli o un banco di sabbia provocando la compressione del laminato e la sua seguente decompressione che avvia una delaminazione della carena. Delaminazione che nell’immediato non da evidenti segni di danni, ma che nel tempo indebolisce la struttura fino al cedimento.

Il fatto che le chiglie si stacchino è molto inquietante, molto più di altri pericoli legati al mare, come per esempio il disalberamento o una falla accidentale. Non potersi fidare della propria imbarcazione fa paura. È colpa di alcuni cantieri che dovendo risparmiare sui materiali e le tecniche di costruzione, finiscono per compromettere la sicurezza delle imbarcazioni? O è colpa dei diportisti che non effettuano i controlli periodici a questo delicato componente? Vediamo allora di capire come sono realizzate la maggior parte delle chiglie in circolazione, come capire se quella della nostra barca presenta un buono stato di salute e quali sono gli eventuali segnali di allarme che ci devono far insospettire, magari al momento dell’acquisto di un’imbarcazione usata.

Sicurezza della chiglia: i materiali contano

Una delle soluzioni più economiche adottata dai cantieri per la realizzazione della chiglia è la ghisa (lega ferro‐carbonio 2-6 per cento), più dura e resistente all’abrasione rispetto all’acciaio, ma più fragile e con minore capacità di assorbire urti senza subire fratture. La ghisa migliore è sicuramente quella sferoidale austenitica (GS550), ma a volte i cantieri ricorrono a materiali di più scarsa qualità, come la ghisa sferoidale ferritica che spesso risulta porosa e non è esente da colature. In caso di urti con scogli o container la pinna in questo materiale potrebbe presentare crepe nella struttura oppure pericolose fratture interne. Generalmente le chiglie di questo tipo vengono incollate allo scafo con sigillanti morbidi tipo polimeri che a distanza di tempo potrebbero presentare infiltrazioni d’acqua. La scelta di usare un collante morbido con pinne in ghisa ne facilita lo smontaggio e ne velocizza l’assemblaggio. Incollaggi migliori allo scafo vengono realizzati con la resina.

Maggiori prestazioni caratterizzano le chiglie in piombo. Questo materiale è più morbido e duttile e in grado di assorbire bene gli urti. Deve essere però “indurito” con antimonio (in genere al 4-5 per cento) per evitare che si deformi sotto il suo stesso peso e di norma deve essere presente al suo interno una gabbia che funga da scheletro impedendo deformazioni del profilo. Il problema del piombo è l’incollaggio allo scafo che impone periodici controlli all’attacco della chiglia, allo stato dei perni e dei prigionieri, ovvero i “tiranti”, immersi nella pinna durante la fusione, che servono per “appenderla” allo scafo.

Punti deboli: l’assemblaggio allo scafo

Una delle soluzioni più diffuse dai cantieri per la realizzazione di chiglie è quella ibrida: ossia con la parte alare in ghisa e il siluro in piombo: la ghisa infatti garantisce la rigidità del profilo, mentre il piombo offre maggiore stabilità, resistenza agli urti e meno volume dato che presenta un peso specifico maggiore. L’alluminio e l’acciaio vengono utilizzati solo quando la pinna è strutturale: la zavorra, solitamente in piombo, viene colata dall’interno o da appositi fori e quindi occasionalmente isolata. Questo garantisce una struttura monoscocca. All’interno dello scafo, i prigionieri della pinna vengono fissati con i dadi a una piastra metallica forata: solitamente l’incollaggio viene eseguito con araldite (resina epossidica) e rifinito con sigillante morbido.

Sia che si tratti di chiglie realizzate in vetroresina e ghisa oppure in composito di carbonio e piombo, il problema è sempre lo stesso: nelle barche moderne la zona attorno al profilo superiore della pinna di deriva è il punto più delicato dello scafo. È un carico concentrato che dall’estremità superiore della pinna di deriva deve diffondersi nello scafo attraverso lo spessore del guscio attraverso alcuni punti dove passano i bulloni: i cosiddetti prigionieri. La situazione è così complessa che tutti i progettisti la risolvono annegando nello spessore della resina del guscio altre strutture, come per esempio travi metalliche trasversali e longitudinali oppure realizzando nervature a scatola in composito. C’è anche chi lavorando in economia diffonde i carichi trasmessi dai prigionieri con una o più piastre metalliche poste in sentina.

Chiglia che cede: quali segnali d’allarme?

Ma quali sono i “segnali d’allarme” che potrebbero nascondere problemi, anche seri, alle nostre chiglie? Statisticamente il 54 per cento degli scafi che vengono periziati ha probabilmente subito urti con il fondale. Uno dei motivi più frequenti della perdita della chiglia è la corrosione dei perni di sostegno o prigionieri: la ruggine se ne “mangia” uno o due e gli altri cedono in seguito per fatica. Se per esempio si notano delle colature laterali marroni sulla pinna, quello è un primo campanello di allarme.

Periodicamente andrebbero rimossi i paglioli per accedere alla sentina e verificare che non ci sia ruggine in prossimità della chiglia ma anche che i relativi componenti di fissaggio siano realizzati materiali giusti: inox 304, 316 o 316L, acciai cadmiati vanno bene, mentre da bocciare sono gli acciai austenitici di qualità A2 perché non resistono ai cloruri e quindi all’acqua salata. Anche le rondelle dovrebbero essere dello stesso materiale o al massimo in ferro zincato. Durante la manutenzione i perni andrebbero puliti, picchiettati e spazzolati per bene affinché si possa valutare se la ruggine sia soltanto superficiale o se il materiale si sgretola tra le dita diventando ruggine di colore nero. Se il perno risultasse in buono stato, lucido e non deformato, andrà trattato con ferox o primex epossidico e quindi rivestito di grasso al litio o similare. In caso di sostituzioni di questi preziosi accessori rivolgetevi a un cantiere.

Barca usata: cosa controllare

Altro segnale di allarme è se per esempio in quadrato i paglioli risultano non bene allineati oppure si notano delle abrasioni alla base dei mobili causate da un innalzamento improvviso dei paglioli stessi. Una botta o un cedimento strutturale potrebbero infatti alzare la chiglia oltre che causare la rottura dei perni o danni al laminato del fasciame nel punto in cui è attaccata la chiglia. La stessa sentina perfettamente pulita per evitare a monte corrosioni e poca visibilità dei “segnali sospetti”.

Alcuni controlli alla chiglia possono essere svolti con la barca in secca. Verificate per esempio che non vi siano distacchi eccessivi tra pinna e scafo e che il fasciame non presenti flessioni anomale a poppavia (segno di un urto a velocità sostenuta). Fate attenzione anche ad eventuali crepe nella struttura, una piccola spaccatura potrebbe nascondere un enorme danno all’interno della pinna.

Qualora infine stiate acquistando una barca usata, informatevi sul materiale della pinna e chiedete espressamente se abbia subito danni o riparazioni, in tal caso è sempre consigliato farla analizzare da un perito.

 

David Ingiosi

Appassionato di vela e sport acquatici, esperto di diporto nautico, ha una lunga esperienza come redattore e reporter per testate nazionali e internazionali dove si è occupato di tutte le classi veliche, dalle piccole derive ai trimarani oceanici

No Comments Yet

Leave a Reply

Your email address will not be published.