Cosa succede se un velista solitario incontra in oceano una barca carica di migranti che sta per colare a picco? Questo il tema che racconta il film “Styx” del regista Wolfgang Fischer.
È uscito il film “Styx”. Gli “incontri” in mezzo all’oceano tra imbarcazioni da diporto e barche piene di rifugiati sono un incubo molto discusso tra i velisti perché stanno diventando sempre più comuni. Che cosa può succedere, dunque, se una velista, da sola sulla propria barca, si ritrova in questa situazione? Nella risposta a questa a domanda c’è la coscienza umana, l’etica personale, la legge del mare, ma anche l’attuale il dilemma tutto da sciogliere che attanaglia i Paesi che stanno nella parte più ricca del mondo: cosa fare con i migranti?
È questo il tema che sta alla base del film del regista austriaco Wolfgang Fischer dal titolo “Styx” che sembra un’evoluzione di un’altra celebre pellicola, ossia “All Is Lost” di JC Chandor. In quest’ultimo veniva raccontata la lotta per la sopravvivenza di un velista da solo contro i mari tempestosi. Nella pellicola austriaca invece c’è un marinaio in difficoltà che ne incontra altri in condizioni molto peggiori. E allora?
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Da viaggio a vela a lotta per la sopravvivenza
La storia di “Styx” è quella della dottoressa tedesca Rieke (intrepretata dall’attrice Susanne Wolff), esperta di pronto soccorso e con la passione per le crociere a vela. Durante una pausa dal lavoro Rieke decide di navigare in solitario a bordo di “Asa Gray”, un cabinato di 12 metri, partendo da Gibilterra per raggiungere l’isola Asuncion, situata nell’oceano Atlantico a Nord di S. Elena. L’isola è un vero paradiso tropicale grazie al rimboschimento operato dalla Marina Britannica nella metà del 19mo secolo. La dottoressa sfoglia un libro con splendide immagini dell’isola e non si preoccupa più di tanto quando dalla radio di bordo il personale di un mercantile che l’ha avvistata, il “Pulpca”, le annuncia una tempesta in arrivo.
Lo sloop “Asa Gray” tuttavia supera la burrasca senza danni e Rieke continua il suo viaggio. Quando all’improvviso avvista a poche centinaia di metri un battello in avaria, senza minimamente immaginare che la sua vita sta per cambiare. Getta un salvagente a un ragazzo che si è tuffato dalla nave per nuotare verso di lei e lo tira a bordo: è un adolescente africano stremato, disidratato e in ipotermia, che presenta anche una grave ustione sulla schiena. Su un braccialetto c’è il nome, Wesley. Rieke lo cura e avverte via radio la Guardia Costiera della presenza del battello in avaria con persone che rischiano la vita: viene ammonita a non intervenire, perché i soccorsi – le si dice – arriveranno presto. Ma è una bugia.
Una metafora drammatica sul concetto di “accoglienza”
Mentre attende i soccorsi, Wesley si rianima e cerca di convincere Rieke a dirigersi verso il battello dove c’è anche una sua sorella. La dottoressa Rieke è in una grave incertezza: la legge del mare e la sua visione del mondo le imporrebbero di portare soccorso anche agli altri occupanti del battello, ma sarebbe un suicidio: Asa Gray non è in grado di accoglierli tutti.
Non ci sono soluzioni facili, naturalmente, ma il film mantiene il fascino di un thriller che ci obbliga continuamente a valutare le difficili decisioni di Rike e può essere considerato un’opera rappresentativa di questo preciso momento storico.